Begotten - 1991

giovedì 13 gennaio 2011

Bellum Omnium Contra Omnes - ½

«Si è nascosto dietro al muro, il bastardo...» disse lui.
«Cosa si fa in questi casi?» gli chiesi quindi.
«Non ne ho la più pallida idea...»

Bellum Omnium Contra Omnes - 5

C'era un gruppo di persone che si era mosso di mattina presto l’altro ieri per incamminarsi verso la pineta, Veronica li vide, Michael li sentì. Sembravano tutti uguali, camminavano all'unisono, senza marciare come i soldati, ma passeggiando silenziosamente, come per evitare di essere disturbati. Erano sonnambuli e non rispondevano più della loro ragione, ma il loro istinto li portava sempre avanti, evitavano a stento i pini che incrociavano lungo il loro cammino, sembravano dei ciechi guidati da una scia odorosa proveniente da un posto vicino. Andavano in direzione del dirupo che era stato scavato due anni fa per la costruzione dell'autostrada. Sono stati ritrovati tutti e tredici, con le teste spaccate in due dal lato del viso, che ancora sanguinavano, ad alcuni il cervello giaceva fino a un metro di distanza.
Quello stesso giorno, Michael ridipinse le pareti di casa sua, era la prima volta che lo faceva da solo. Sbagliò a posizionare i giornali, sporcando il pavimento di macchie bianche, mentre cercava di cancellare le tracce del suo passato prossimo, intrise sulle pareti della sua cucina da due giorni. Non aveva neppure spostato dal pavimento quello che restava della carcassa della sua fidanzata, prima di cominciare il lavoro, così anche il cranio insanguinato di Jenny si sporcò di bianco, così come la cavità del suo addome, già dimora di mosche e formiche.
Era tardi. Sul lato destro dell’ingresso di casa c’era lo specchio, Michael lo ignorava sempre.
Mentre gli passava a fianco lo specchio si rifiutava di riflettere la sua immagine, così il ritratto di Van Gogh che gli stava di fronte si trovò a fissare la lastra di vetro e argento. Michael sentiva tutto.
Riusciva a sentire la differenza fra le vibrazioni della sua casa disabitata e l’esterno popolato da viventi che sembrano morti. I sogni e la realtà si stanno confondendo troppo, in certi punti della vita di Michael quasi combaciano per minuti interi. Al posto delle percezioni sensoriali si ritrovava forme strane, ombre dai colori più disparati, voci a volte familiari e altre volte del tutto incomprensibili, il ghiaccio gli appariva ruvidissimo al tatto, spesso le pareti tremavano e le luci diventavano intermittenti, accendendosi e spegnendosi all’unisono con i battiti d’ali delle falene che da qualche tempo gli infestavano la casa.
«Mike? » disse Veronica , e Michael tremò sentendo la sua voce. Si rese conto di essere al telefono.
«Sì? » rispose un po’ seccato.
«Ti ho detto di riportarmi quel quadro, mi hai capito? Sembrava quasi che te ne fossi andato »
«Già… ero distratto » Rispose lui.
Michael era, fino a quel momento, un tecnico informatico. Non aveva una ragazza, Jenny l’aveva lasciato da una settimana.
«Te lo… te lo riporterò domani. »
«Ci vediamo. » rispose e attaccò la cornetta. Michael riprese ad ascoltare Virus Bomb degli Anaal Nathrakh, gruppo di cui indossava la maglietta in quel momento.
Era confuso quel giorno, era la prima volta che le allucinazioni durassero tanto a lungo, ed era la prima volta in cui si susseguivano rapidamente, facendo passare il ragazzo da un mondo all’altro in brevissimo tempo. Per fortuna era un ragazzo con i nervi saldi.
Tornò in soggiorno. Il suo riflesso nell’aria gli comparve davanti, rivelandogli la visione di sé stesso che aveva ucciso Jenny e stava ridipingendo le pareti.
«Ciao, Mike… »
«Chi sei? »
«Io sono te… il vecchio te… che paradossalmente è il giovane te, haha… » rise
«Da giovane non ero un’allucinazione. » scosse la testa e si portò i polpastrelli sulla fronte, abbassando lo sguardo.
«Da giovane eri vivo, Mike… non era questo il tuo nome allora… »
«Cristo, sto malissimo… » commentò fra sé e sé, strofinandosi le tempie con entrambi gli indici, sempre a testa bassa.
«Non eri uno skinhead, però mi piacevi di più con i capelli rasati. » scomparve, lasciando a Michael una sgradevole sensazione addosso. Sentiva freddo, tanto freddo, ma non si mosse.

giovedì 21 ottobre 2010

Perché faccio tutto questo.

Il titolo per la serie "Bellum Omnium Contra Omnes" non deriva direttamente dalla frase di Hobbes, ma da questa canzone. È stata proprio la furiosa grinta della grindcore band inglese a spingermi a scrivere di violenza spassionata mediata da una mentalità antisociale.
Da tempo avevo in mente il personaggio di Cold, solo che era meno realistico di quanto poi è risultato essere durante i racconti. Cold l'avevo disegnato come una sorta di "cattivo dei fumetti", pelato, costantemente con la maglia degli Anaal Nathrakh addosso e armato di due Beretta 92 FS, dotato di tiro precisissimo e di poca pietà.

La Quiete è ovviamente un titolo dovuto alla famosa band Emo Violence di Forlì. Ora come ora non ricordo bene perchè la loro musica mi ispirò a scrivere qualcosa di così poco violento, ed è infatti il progetto più difficile a cui sto lavorando,  e ci impiegherò molto più tempo di tutti gli altri a finirlo.

Ci vediamo all'inferno, stanza 4, corridoio "esse":
Questa è divertente. Mio fratello stava giocando ad Alone in The Dark 4, e un personaggio disse una frase "Ci vediamo al museo, stanza 943" ma io capii male, e sostituii la parola "Museo" con "Inferno". Dopo qualche giorno decisi di cominciare a scrivere qualche cazzata, e mi serviva un titolo per il blog. Mio fratello stava di nuovo giocando ad Alone in The Dark 4, e così mi ricordai. Stanza 4, corridoio "esse" è una sostituzione che trovavo divertente.

giovedì 30 settembre 2010

Bellum Omnium Contra Omnes - 4

Gerald prese il revolver, lo puntò alla sua testa, tirò il cane e fece scattare il grilletto. Click.
Toccava a me.
«Questo gioco mi annoia» si lamentava Louis, sbadigliando. Teneva il gomito destro poggiato sul tavolo, lasciando che la fronte gli cadesse nella stessa mano.
Click.
«Perchè nessuno di noi ha paura?» chiesi, passando la pistola a Louis.
«Hai messo il proiettile?» chiese Gerald, distratto.
Click.
«Insomma, quanto ci mette a sparare?» chiese Louis, mentre faceva per porgere la pistola ad Albert.
«Dà qua» feci io, e gli strappai l'arma di mano. Controllai il tamburo, il proiettile era inserito.
«L'avevi messo quindi...» commentò Gerald, sporgendosi verso di me, buttando l'occhio sul tamburo. Feci girare quindi il tamburo nella pistola e con uno scatto lo riposizionai, passandola quindi ad Albert, il quale mi disse «A me invece fa davvero paura.» disse sincero, mentre puntava alla sua tempia destra.
Click.
«Sta durando fin troppo...» si lamentò Gerald, strappandogli la pistola di mano e puntandosela nuovamente alla tempia.
Click.
«Mi sono stufato.» disse Louis.
«Shhh! Arriva qualcuno.» Alle parole di Gerald, tutti scattammo sui nostri letti, ma nessuno si ricordò di togliere la pistola dalle grinfie di Gerald, il posto meno sicuro in cui potesse stare. Per nostra fortuna, lui si ricordò di nasconderla sotto il materasso.
«Cold!» mi sussurrò Albert «La pistola» mi diceva a bassissima voce per non farsi sentire da Gerald, più che dal nostro sorvegliante «La pistola!» ripeteva sottovoce.
Io, che ero sul letto a fianco di quello di Gerald, cercai di allungare il braccio per recuperare l'arma che ancora sporgeva da sotto al materasso senza farmi scoprire da Gerald, ma lui si girò di scatto verso di me.
«Fermo!» mi disse sempre sottovoce«Rischi di fare rumore e di farci scorpire»
«La pistola!» cercai di essere il più silenzioso possibile, facendo in modo che leggesse il mio labiale.  «Passami la pistola!» il sorvegliante entrò.
«Che succede qui dentro? A quest'ora non voglio casini, chiaro?» Urlò, e la sua voce coprì il rumore che facemmo nell'alzare il mio materasso per nasconderci l'arma sotto, prima che lui riuscisse ad accendere la luce. Un bagliore fastidioso ci piombò addosso, e cercammo di fingere di dormire nel modo più convincente possibile. Tutti tranne Gerald, il quale si infilò le dita in gola e vomitò proprio a fianco al mio letto. «Signore, non mi sento bene» disse con un tono molto convincente.
«Cadetto Witson, che razza di femminuccia che sei! Vai in infermeria a riposare, tutti gli altri, non fatemi tornare qui o vi metto a pulire i cessi per due settimane, sono stato chiaro?»
«Signorsì, Signore!» rispondemmo all'unisono, eravamo tutti in piedi, tranne Gerald.
«Compagnia, riposo. Cadetto Witson, con me.» Si prese Gerald sottobraccio per sorreggerlo e uscì dalla stanza. Spense le luci.
Con il buio, mi fiondai a cercare la pistola sotto il mio materasso. Non c'era nulla.
«Cazzo, cazzo cazzo!» sussurrai, ma Albert e Louis mi sentirono.
«Oddio...» disse Albert.
Louis cercò di parlare «L'ha pre...» ma il sorvegliante ci bloccò urlandoci da fuori.
«Volete fare silenzio teste di cazzo?» ammutolimmo.
Quando il rumore dei suoi passi fu impercepibile Louis fu il primo a parlare.
«Non dirmi che l'ha...» Sentimmo uno sparo.
«Andiamo a dormire...» Propose Louis stesso. «Ci penseranno da fuori a sistemare le cose...» disse stranamente sereno.
«Quel coglione... Domani lo farò a pezzi.» mi addormentai con queste parole fra le labbra.

domenica 19 settembre 2010

Paragonarmi agli uochi toki

Cosa ne pensi della coerenza?
Assurdo volere a tutti i costi sviluppare una fedeltà ad un pensiero o ad una frase mentre tutto ciò che abbiamo intorno ci scorre incontro: vento, persone, luci e ombre, malattie, feste. Una persona coerente a tutti i costi mi fa notare che ieri dissi una certa frase che rappresentava un mio comportamento riferito a certe situazioni, o a certe condizioni che stabilitesi lo stesso giorno in cui quest'uomo mi sta parlando non mi hanno costretto a rispettare la mia promessa fatta a me stesso ma in compagnia di altri. Benissimo, tu mi fai notare quindi che in queste ore durante le quali ti ho confidato il mio pensiero io ho avuto il tempo di mangiare, riposarmi, ascoltare altri discorsi più o meno necessari a sviluppare ancora meglio la mia capacità di interpretare, non assorbire, informazioni, camminare, digerire, defecare svuotandomi le viscere dalle scorie, dormire, mangiare ancora e ascoltare ancora altri discorsi che come prima possono più o meno rendersi interessanti e complementarsi a tutti i miei pensieri sulla vita, la morte, la religione o sulla coerenza che tu mi sbatti in faccia ostentando superiorità, e infine ho anche avuto il tempo di tornare sui miei passi a dirti per caso che ciò che pensavo ieri ora non lo penso più perchè reazioni chimiche e confronti con altre persone che la pensano inevitabilmente in modo diverso da me sono state in grado di dirmi «Ma forse non è tutto qui, caro. Forse c'è dell'altro, non ti fermare, magari potresti crescere.» mentre tu sei solo in grado di riferirmi, che la mia coerenza si taglia come il burro sotto un coltello di maggiore densità, si taglia come un tonno tenerissimo sotto il tuo saggio grissino coerente, ma non ha importanza: di persone così ne ho già abbastanza intorno, e non ho voglia di spiegare ad ognuno di loro presi singolarmente che la mia coerenza si sviluppa su altre basi più solide del pensiero umano, più solide di un grissino, si basa sulla volontà di mettermi sempre in discussione, si basa sul dubbio, sull'errore, sullo sbaglio più o meno volontario, e sono coerente se dopo ogni mia scelta torno indietro sui miei passi a controllare se non ho per caso sbagliato strada, sicuramente se lo facessi tu, torneresti al primo bivio accorgendoti di aver sbagliato ad imboccare la via che intendevi prendere ma poi torneresti avanti fino al punto in cui ti sei reso conto di esserti sbagliato pur di rimanere coerente a tutti i costi. E sono coerente quando sbaglio, non mi impegno nel giudicarmi colpevole, vostro onore, l'imputato si reputa capace di intendere e di volere, e di volere intendere, intendiamoci, intende correggere i propri sbagli di volere, non era sua intenzione, vuole redimersi, intesi? E sono coerente quando ammetto di non esserlo, non sulle cose che per voi sono reliquie come le frasi, come il pensiero umano, no, io non sono coerente per voi, per niente, la coerenza è da vigliacchi impertinenti, io sono incoerente.

venerdì 10 settembre 2010

Sud 1996 - Il libro di Alan

Delirio, che era quasi tutto racchiuso nel mio incessante mal di testa che mi impediva anche di stare seduto, ma fosse stato solo questo il problema non starei qui a lamentarmi con voi. Avrei preso un'aspirina e tutto sarebbe passato presto, no, il vero problema era che non avevo davvero la più pallida idea di dove fossi finito. E c'era il mio amico Phil che mi attendeva sorridendo. "Perché cazzo stai ridendo?" avrei voluto chiedergli e invece mi precedette:
«Dormito bene, Al?»
«E tu chi sei?» gli domandai io.
«... Cosa?» mi rispose, naturalmente sorpreso e divertito da quella domanda
«Non...» volevo continuare ma crollai nuovamente sul letto, distrutto.
«Ehi, tutto bene, Alan?» si alzò dalla sedia su cui stava appoggiato e mi mise una mano sulla fronte «Mmm...» mormorò, prima che gli prendessi la mano e la lanciassi via dalla mia testa. «Sto bene, solo che...»
«Solo cosa, Al? Ti comporti in modo strano oggi...» mi bloccò lui
«Beh, vedi... è una cosa un po' imbarazzante» sorrisi, alzandomi finalmente dal letto «Il fatto è che...» non riuscivo a trovare le parole giuste.
«...che?» mi spronò Phil.
«Ecco, credo di avere un'amnesia.» Non finii la frase che Phil stava già ridendo
«Non perdi mai la voglia di scherzare, Alan, ah ah ah!»
«Dico sul serio, non ricordavo di chiamarmi Alan, non ricordo cosa faccio nella vita, dove siamo e chi sei tu.»
«Che sagoma che sei!» moriva dalle risate, mentre il mio volto era sempre più serio.
«Da sbellicarsi dalle risate, vero?» chiesi un po' amareggiato.
«Non puoi dire sul serio Al! Ti sei dimenticato di me?» Finalmente cominciò a prendere la situazione sul serio, smetteva anche di ridere.
«Beh, sì.»
«Ok, ho capito... Che strana situazione. Oggi ti porterò da un dottore e vedremo cos'hai...»
«Si chiama amnesia, genio!»
«Lo so, stronzo, intendevo cosa l'ha provocata...» si corresse. «A proposito, io sono Phil Brown, il tuo migliore amico...»
«Me n'ero accorto...» commentai io. «Ora dimmi, Phil, dove ci troviamo?»

lunedì 30 agosto 2010

Sud 1996

SUD 1996, naturalmente non è una data, muri bianchi sugli sfondi in tutte le direzioni, in profondità. Luce soffusa e comunque di provenienza ignota, e non vi è ombra di sorta proiettata sul pavimento da me sovrastato. Un balzo, le palpebre che sbattono ed è subito un ritorno alla realtà, percepibile dallo sbalzo fra la luce di prima e le lenti scure dei miei occhiali da sole, utilissimi sotto l'astro cocente del primo pomeriggio. Seduto su una due posti senza capote e legato allo schienale con una cintura di sicurezza e una terribile serie di fitte allo stomaco. Il vento, che scombina i miei capelli e il rumore del motore acceso, e delle ruote velocissime sull'asfalto. «Dove andiamo Phil?» domando al mio amico alla guida del nostro destriero a motore. «Da nessuna parte» risponde lui senza distogliere lo sguardo dalla strada. Non potevo aspettarmi di meglio da lui. Quando la risata beffarda di Philip Thomas Brown conclude qualunque sua frase, ti arrendi: sai che non otterrai chiarimenti da lui, mai. Di conseguenza mi ritrovo ad attraversare  una desolata strada in mezzo a un deserto con i postumi di una sbornia colossale da alcol e psillocibine su un'auto, che potrebbe benissimo essere stata rubata, guidata da un drogato che non so se stia attraversando una crisi di astinenza o è nel pieno del trip, il tutto in piena amnesia. Ah già: è da almeno una settimana che non riesco a ricordarmi nulla sul mio conto. Mi sono risvegliato di notte in un vicolo buio di una città a me ignota mentre un teppista mi frugava nelle tasche della giacca. Aspettai che mi trovasse il portafogli prima di prenderlo per il colletto e urlargli in faccia
«Ehi!»
Non fece in tempo a guardarmi negli occhi che si ritrovò le mie nocche destre stampate sul viso, in rosso. Mi riappropriai del portafogli e mi alzai mentre il ladruncolo, sconfitto, riuscì a svignarsela. Subito dopo incontrai Philip, non lo conoscevo, o almeno non mi ricordavo di lui... Tuttavia il suo codino castano, il suo pizzetto, quella fronte stempiata e la camicia da boscaiolo, tutte quelle cose mi ricordavano qualcuno. In più mi correva incontro come se si fidasse ciecamente di me, chiamandomi con insistenza «Alan! Alan! Corri, presto, dobbiamo scappare!» diceva.
Lo seguii, ed ora mi ritrovo in questa misera situazione. Comunque, salii sulla macchina di Phil, non la stessa che sta guidando ora, ma una Mercedes quasi del tutto distrutta, e la prima cosa che feci fu cercare i miei documenti.
«Che cazzo fai, Alan?»
«Dove andiamo?»
«Eheh... Via di qui!» Mi rispose, e quella sera non parlò oltre. I miei documenti dicevano che mi chiamavo Alan Patrick Daniels, che ero nato da qualche parte ad Atlanta e che portavo i baffi. Calai subito lo specchietto dall'alto e notai che ero identico al tizio della foto nei miei documenti, eccezion fatta per il muso rasato che ho incontrato nello specchio. «Stavi meglio con i baffi» mi sembrò di sentire, ma pur sapendo che non era la voce del mio guidatore mi voltai.
«Cosa hai detto?» gli chiesi.
Nessuna risposta. Forse in realtà ho solo immaginato di parlare,  forse ero io ancora intontito per l'amnesia. Mentre Phil, lo sconosciuto amico che mi chiamava per raggiungerlo nel momento in cui mi sono ricordato di essere vivo, guidava a velocità incredibile con quel catorcio di Mercedes, uno sbalzo mi fece ricordare che le cinture di sicurezza esistevano per un valido motivo, così mi allacciai per bene al sedile, sicuro che anche se la spericolata guida del mio nuovo amico non avrebbe retto ad un qualche tipo di imprevisto come incidenti, strade sdrucciolevoli, o invasioni di cavallette, la cintura di sicurezza mi avrebbe fatto restare sempre al mio posto. Presto decisi che per i miei nervi sarebbe stato meglio non continuare a sforzarmi di guardare la strada: manovre pericolose, frenate improvvise e brusche accelerazioni erano una dura prova per il mio coraggio e per il mio intestino retto, pronto a rispondere alle sue funzioni biologiche per la paura a cui ero sottoposto. Così mi addormentai, cullato da quella guida oltraggiosa nei confronti del buonsenso comune. Mi risvegliai quindi in una stanza di non so quale casa abbandonata, motel o scantinato fatiscente, in preda al delirio.